martedì 18 novembre 2014

Racconto: Fantasmi a Colazione

FANTASMI A COLAZIONE 


Quando Angelo mi chiamò fu una bellissima sorpresa, era davvero tanto che non lo sentivo, dai tempi dell’Università e sentendo la sua voce sempre uguale, con quel tono allegro e giovanile, mi prese una gran botta di nostalgia per le belle serate passate in compagnia di una chitarra e di qualche ragazza sugli scogli vicino a Castel dell’Ovo.

Giampie’ comme staje? Mamma mia da quanto tempo nun ce sentimmo guagliù! Siente, t’aggiu chiamato perché saccio che si addivintato nu geologo assai ‘sperto e mi serve un aiuto per risolvere una ristrutturazione in una villa di famiglia, vicino ad Avellino. Che dici? Jamme, ce verimmo sabato mattina ad Avellino e poi jammo a vedere la villa e stiamo insieme sabato e dummenica, dormi da me a casa mia. Nun puoie dicere no. Aggie invitato pure a altri cumpagne nuoste dell’Università. La chitarra la tengo ancora, passammo duie juorne ‘nzieme!
Come si fa a dire di no al tuo compagno di università? Come se Tex potesse dire no a Kit Carson, oppure come se Stanlio dicesse no ad Ollio, non è possibile. Mi ritornarono in mente mille episodi del periodo universitario, l’appartamento con le ragazze di economia e commercio, Antonia, la ragazza di Santagata dei Goti dalle gambe affusolate, i femminielli del piano di sopra, il nostro compagno Armando e la sua collezione di giornali pornografici, il Babà di Serafino, gli occhiali di Emilio, le risate.
Fu facile dire di si, più difficile lasciar trascorrere la settimana in attesa del sabato che alla fine arrivò.
Angelo era lì, sempre uguale, qualche filo bianco tra i capelli ricci e il suo sorriso trascinante ancora intatto, ci abbracciammo forte e partimmo per la sua villa.
Imboccammo una traversa della Strada Statale e ci infilammo in un lungo e stretto viale alberato che si allungava verso ovest e arrivammo davanti ad un cancello di ferro imponente, racchiuso in un muro di cinta ricoperto di antica edera, che immetteva alla proprietà del mio vecchio amico.
Era una grande vecchia masseria fortificata con due torri situate ai lati del corpo di fabbrica principale, un edificio imponente di tre piani, con le feritoie per sparare ai lati delle torri su più piani e lungo tutto il piano terra del corpo di fabbrica principale, ai lati due vetusti edifici semidiroccati dovevano essere magazzini e stalla.
Al centro della facciata principale un ampio portone a due battenti con uno stemma nobiliare e una porta di legno rinforzata da lastre di metallo e con una serie di chiodi sporgenti, due grosse maniglie e una feritoia per spiare da dentro.
Bussò forte Angelo, più volte, alla fine si aprì lo spioncino e due occhi di donna ci guardarono da dietro la fessura, subito dopo si sentì un grido gioioso da dentro, un rumore di chiavistelli ed entrammo, non feci in tempo ad adattarmi alla penombra dell’ingresso che fui stretto in un abbraccio profumato della fragranza del profumo Armani da donna e baciato sulla bocca, sarebbe meglio dire nella bocca, da labbra calde e da una lingua vorticosa, in cerca di conferme le mie mani andarono verso il fondoschiena della baciatrice e riconobbero Antonia la nostra amica che terminò il bacio sussurrandomi all’orecchio, “ti vedo sempre su facebook, sei migliorato col tempo ed hai conservato quel buon sapore che mi ricordavo”.
All’ingresso della casa, al lato della stanzona, troneggiava un grande camino acceso con di fronte dei vecchi divani e una grande specchiera di noce nazionale, sul lato destro una grande porta immetteva verso una stanza da cui si sentivano provenire le note della Kc an sunshine band, risate, e un vociare allegro.
Ed erano tutti lì, qualcuno perfettamente uguale a come l’avevo lasciato, qualche altro con pancetta e pochi capelli, qualche occhiale da presbite, qualche capigliatura sale e pepe, ma gli occhi erano tutti uguali come li avevo lasciati 28 anni fa, lucidi, febbrili, sguizzanti, alla ricerca del lato divertente della vita, fraterni e pieni di sollecitudine, grati per quel bell’incontro.
In un attimo furono abbracci e sorrisi, pacche sulle spalle, ammiccamenti alla volta di Antonia che indossava un tailleur blu che esaltava le sue gambe meravigliose ancora assolutamente mozzafiato con in più quel pizzico di fascino “vissuto” di una bellissima donna di 50 anni, perfettamente consapevole delle sue grazie e dell’effetto che avevano sugli altri.
Dopo un po’ Angelo mi chiamò da parte e mi chiese di accompagnarlo nello studio al fine di sottopormi la questione pratica per cui, al di là del piacere della rimpatriata che aveva organizzato prendendo quell’occasione come spunto, mi aveva chiesto di vederci.
Il problema di Angelo era la stabilità delle pareti della cantina situata sotto la casa dove erano conservate le enormi botti in cui faceva maturare l’ottimo aglianico che produceva nelle sue terre, mi spiegò la questione e alla fine concordammo di andare a dare un occhiata in cantina.
Era oggettivamente in cattive condizioni, gli archi di pietra che sostenevano le volte erano mal messi, in qualche caso la chiave era dissestata, gli antichi tronchi di legno che fungevano da sostegno erano in parte marciti, le pareti mostravano segni visibili di cedimento e vi erano vistose infiltrazioni di acqua.
Mi spiegò distrattamente che una volta parte di quella cantina era il cimitero di famiglia e che il Padre aveva provveduto negli anni ’50 a far rimuovere le sepolture e le ossa e a trasportarle nella tomba di famiglia ad Avellino, da qualche parte, disse, dovevano ancora esserci le spoglie di un cugina di suo nonno morta vent’enne di spagnola.
Stranamente, subito dopo questo racconto di memorie familiari la cantina mi sembrò più fredda e in più occasioni ebbi come la sensazione di una corrente fredda che mi carezzasse la nuca, ricordo che rabbrividii più volte cercando di dissimularlo mentre il mio amico mi precedeva in direzione delle scale che portavano alla casa e alla simpatica compagnia dei nostri amici.
La sera trascorse tra cibi e fiumi di vino, ingaggiai una lotta all’ultimo sangue con Emilio per chi doveva portarsi a letto Antonia che persi, diedi una ultima fugace occhiata alle sue gambe paradisiache mentre, ridacchiandomi e salutandomi con la mano si infilava nella stanza da letto di Emilio per andare a fare l’amore.
Entrai nella stanza che Angelo aveva fatto preparare per me, una specie di piccolo studiolo con una bella libreria e una scrivania in noce, con una bella lampada da tavolo di ottone dorato e una vittoria alata come ferma carte.
Mi sedetti sul letto, ormai stanchissimo e disfatto dal vino e dalla delusione di aver perduto l’occasione di rinverdire antichi fasti con la mia amica, e chiusi un attimo gli occhi.
Mi sentii sfiorare le guance da una carezza gelata che subito dopo mi sfiorò la nuca e la schiena strappandomi un gridolino di sorpresa e facendomi spalancare gli occhi, al naso un leggero profumo di magnolia e come una sensazione di nebbia davanti agli occhi.
Sarà stato il vino? Non lo so, di per certo ne fui spaventato e come i ragazzini mi misi nel letto coprendomi la testa con le coperte di lana, seguì un sonno tanto profondo quanto agitato.
Mi svegliai che il sole era appena sorto, una bruma grigia velava l’intera campagna rendendo finanche l’imponente muro di cinta della villa come un indistinta riga più scura persa nell’incertezza di un grigio soffuso, le querce erano forme indistinte e vaghe dall’aria minacciosa, di fronte a me, alla scrivania, Lei leggeva.
Era una ragazza bruna, magra, con indosso una sottile vestaglietta rosa dai mille merletti, al collo un piccolo cameo e una croce, un fermaglio d’osso sui capelli. Scriveva su un foglio con l’aria concentrata e le sopracciglia aggrottate, la lingua appena faceva capolino al lato della bocca.
La guardai sorpreso, lei per un attimo alzò i suoi occhi su di me e abbozzò un piccolo sorriso poi chinò il capo e riprese a scrivere; rimasi ad osservarla a lungo, al suo fianco da una tazza fumante di te si alzavano volute di vapore che salivano verso l’alto.
Ad un tratto alzò la testa e mi guardò e con una vocina sottile disse porgendomi la tazza, i suoi occhi verdissimi brillavano come smeraldi,
Vuoi un po’ di te?
Allungai la mano verso la tazza, quasi felice di quel gesto che mi confermava della sua presenza fisica, avevo quasi raggiunto con la mia mano la tazza quando il primo raggio di sole, dalla finestra, illuminò la stanza. In quello stesso istante la mia mano raggiunse la tazza e ne fu istantaneamente intorpidita un gelo profondissimo.
La vidi sfumare via come nebbia dal basso diventando via via più trasparente, l’ombra del suo sorriso e dei suoi occhi luminosi furono l’ultima cosa a sparire rimanendomi impressi nella mente; il mio sangue, di ghiaccio, riprese a circolare lentamente solo qualche minuto dopo.
Quando raccontai ad Angelo del mio sogno, così mi espressi cercando di razionalizzare ciò che avevo visto, lui non rise, mi guardò serio e mi disse che ogni tanto la sua antica cugina, di cui mi descrisse in maniera precisissima ed esatta le fattezze, compare a qualcuno, mi suggerì di andare via e di non tornare perché a volte, Lei, si affezionava ai suoi visitatori seguendoli a distanza fino alle loro case.
Non sorrideva, non mi stava prendendo in giro ed io mi spaventai.
Non sono più tornato a casa di Angelo da quella volta, mi capita ogni tanto, in quelle mattine di bruma spessa in cui mi alzo la mattina e guardo la mia città da dietro la finestra, di sentire un soffio freddo che mi carezza la schiena, quando succede, in genere, non mi volto a guardare chi c’è.

Nessun commento:

Posta un commento