Camminava lento il mulo quel mattino, l’occhi lacrimoso per il gelo e Michele imbacuccato nella sua giacca e col cappello calzato sulle orecchie andava a passo svelto maledicendo il freddo di stagione che non voleva passare.
Quella mattina di febbraio il cielo aveva il colore dell’acciaio, appena un ombra di arancio nella direzione da cui, tra un poco, il sole sarebbe sorto.
Camminava con attenzione Michele su quell’acciottolato scivoloso che si avviluppava come un serpente sul fianco della montagna sempre delimitato da ripide scarpate e, verso valle, da profondi dirupi. Era una piccola balza ricavata nella roccia sul fianco ripido della montagna lungo cui bisognava muoversi con attenzione con l’orecchio teso al rumore di massi che potevano in ogni momento franare dal pendio e l’occhio attento a non mettere il piede in fallo.
Era forte il freddo quella mattina e il mulo sui ciottoli ghiacciati di brina scivolava e faceva fatica a salire, Michele procedeva lentamente, con attenzione, pensando al calore della casa e alla madre già china ai lavori domestici e poi pensava a Lei, a quei suoi occhi neri e a quel sorriso che gli aveva fatto sul sagrato della Chiesa, di nascosto alla madre.
Lo schiocco della roccia spaccata precedette l’urto del masso sul sentiero di pochi secondi, il tempo di staccarsi dal pensiero di quella bella dagli occhi neri e dal sorriso come neve, e fu già tardi.
Mentre cadeva sentì gli urti sul corpo contro gli spuntoni di roccia sul versante e i ragli di dolore del mulo che cadeva innanzi a Lui, il tonfo al fondo del dirupo ebbe il suono sinistro dello scricchiolio di qualcosa che si rompeva, poi fu il freddo della neve e il buio.
Una lama di luce lo svegliò; il sole, ormai alto nel cielo, gli scaldava il viso il corpo giaceva inerte alla base del pendio, poggiato di fianco, con le gambe disposte come quelle di una marionetta ormai rotta, capì subito che qualcosa si era rotto, le sue gambe gli mandavano dolorosi messaggi d’allarme.
Si disperò Michele dandosi per morto, chi mai l’avrebbe visto alla base del dirupo? Pianse pensando ai balli nella piazza del Paese al suono del’organetto, alle corse nei sacchi durante la festa del patrono, pianse di dolore e di paura. Dopo un poco tornò il buio nella sua mente e svenne.
Un rumore leggero, come uno scricchiolio lieve, lo svegliò. Cercò di alzare la testa per vedere chi fosse lì vicino, cercò di gridare ma anche quel filo era spento e venne fuori un grido rauco. E lo scricchiolio ci fu di nuovo.
Davanti ai suoi occhi un mucchietto di neve pareva sollevarsi, si schiudeva come il guscio di un uovo sotto i colpi di becco del pulcino, e scricchiolava.
Poi, un puntino giallo fece capolino tra i cristalli di ghiaccio della neve e poi si sollevò pian piano il bucaneve.
E il bucaneve si schiuse davanti ai suoi occhi e quel rosa e quel giallo lo avvolse e il verde del calice gli sorrise.
Rimase a lungo a guardare quel piccolo pulcino giallo che combatteva per sfondare il suo soffitto di neve e per uscire al sole e alla vita, guardava silenzioso quella singolare lotta per la sopravvivenza tra il gelo della neve e la determinazione del fiore a ricercare il sole. E infine sbocciò. Il bucaneve aprì la sua corolla e prese il sole e la vita.
Si riscosse Michele, dolorosamente cominciò a alzare il tronco tra fitte di dolore cercando la vita, come il bucaneve.
Strisciò, si aggrappò, cercò un appiglio e risalì lungo la scarpata, con le gambe rotte che urlavano di dolore, cercando il tratturo per ritornare alla vita e, quando alla fine fu ritrovato dai fratelli che erano andati a cercarlo, quasi al limite del sentiero scosceso, sorrise e pianse e, come il bucaneve, si riaprì alla vita.
Passarono mesi per Michele, mesi di dolore e di fasce, mesi di dottori e di lenta guarigione e poi tornò.
Fu la prima passeggiata che fece in paese, col fratello, fino al luogo del bucaneve.
Il Bucaneve non c’era più.